Onorevoli Colleghi! - «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione», dispone l'articolo 21 della Costituzione. Ma una costituzione materiale si è imposta, anno dopo anno, al di là e contro la Carta fondamentale, insinuandosi nella legislazione ordinaria fino a rendere lettera morta i princìpi - complementari e irrinunciabili perché un ordinamento possa dirsi democratico - della libertà di informare e del «conoscere per deliberare». Al punto che il Rapporto 2005 sulla libertà di stampa compilato da «Reporters sans frontières» pone l'Italia al quarantaduesimo posto, superata da Costarica, Mali, Giamaica, Bosnia, Tobago, Capo Verde e Namibia.
      Già nel 1945, dalle colonne di Risorgimento liberale, Luigi Einaudi aveva levato la sua voce contro l'istituzione di un Ordine dei giornalisti: «L'albo obbligatorio è immorale, perché tende a porre un limite a quel che limiti non ha e non deve avere, alla libera espressione del pensiero. Ammettere il principio dell'albo obbligatorio sarebbe un risuscitare i peggiori istituti delle caste e delle corporazioni chiuse, prone ai voleri dei tiranni e nemiche acerrime dei giovani, dei ribelli, dei non-conformisti». Una previsione, quella del primo Presidente della Repubblica, che trova drammatico riscontro nella realtà odierna.
      La legge istitutiva dell'Ordine dei giornalisti, che qui si intende abrogare, ha garantito, contro la Costituzione, non la

 

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libertà di stampa di tutti i cittadini, ma la libertà della stampa, intesa come corporazione giornalistica. Caduto il regime fascista, la sostanza strutturale è rimasta immutata: la corporazione ha preso il nome di Ordine. Laddove, secondo il dettato costituzionale, avrebbe dovuto essere consentito a tutti i cittadini l'esercizio della libertà di stampa, la legge n. 69 del 1963 ha stabilito che «nessuno può assumere il titolo né esercitare la professione di giornalista, se non è iscritto nell'albo professionale».
      Come può essere considerato, se non effetto di una bardatura corporativa a difesa di privilegi di casta, il vero e proprio percorso di guerra che chi intenda intraprendere la professione di giornalista deve affrontare prima di arrivare all'esame? Una professione, a tutti gli effetti, non libera, nel momento in cui essere riconosciuto praticante (e avere quindi titolo di ammissione all'esame) è spesso frutto di un negoziato politico: lottizzazione partitocratica, familismo, clientela, sono la regola. Proprio come sono la regola - e gli scandali che periodicamente si ripetono non mancano di rammentarcelo - le raccomandazioni al momento del cosiddetto concorso di esame.
      Nemmeno la nascita, negli ultimi anni, di numerose scuole di giornalismo, la cui frequentazione biennale è sostitutiva del periodo di praticantato presso un editore, è valsa a migliorare la situazione: spesso le stesse si trasformano in una sorta di diplomificio, dove acquistare l'iscrizione all'Ordine dei giornalisti professionisti.
      Con la soppressione dell'Ordine prevista dalla proposta di legge che qui si illustra, viene a cadere un'anomalia italiana all'interno dell'Unione europea e si restituisce piena dignità professionale a chi svolge effettivamente la professione di giornalista. L'articolo 2 istituisce infatti la «carta di identità professionale del giornalista» valida fino al momento in cui l'attività giornalistica cessa, abolendo da una parte la qualifica (altrove sconosciuta) di «pubblicista», e dall'altra lo status sociale vitalizio, indipendente dall'esercizio della professione, di «giornalista professionista».
      Cessa così la commistione fra giornalisti e lobbisti, vale a dire funzionari redattori di uffici stampa o pubbliche relazioni: identificazione pericolosa per chi svolge un'attività di giornalista legata a valori costituzionalmente protetti; ma, d'altra parte, implicitamente offensiva per chi si vede costretto a mascherare la propria attività di informatore di parte, che è pienamente legittima all'interno di meccanismi di mercato chiari e rigorosi.
      In questa proposta non viene previsto un periodo di praticantato, visto che l'apprendistato professionale è stato di fatto cancellato nella vita delle redazioni proprio dalla legge attualmente in vigore e sostituito da lavoro nero, sottopagato e privo di diritti.
      Con l'istituzione della «carta di identità del giornalista» si intende, infine, impedire ogni assurda discriminazione fra redattori di quotidiani da una parte e redattori di emittenti radiofoniche o televisive, di agenzie e periodici specializzati dall'altra, indipendentemente dal fatto che i suddetti mezzi di comunicazione abbiano diffusione per via tradizionale o telematica, salvaguardando in tal modo le forme più moderne di accesso alla professione.
 

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